1. Che cosa si intende per “comune cultura politica”? E’ possibile pensare nei termini di una dotazione minima “abilitante” che si può richiedere ai cittadini (o socializzarli ad essa) per partecipare attivamente al processo decisionale? Da che cosa è formato questo nucleo della comune cultura politica? Che cosa è comune ai diversi?
La “comune cultura politica” è da intendersi come l’insieme di procedure, condizioni di libera discussione e competenze deliberative che permettono interazioni costitutive di nuove forme di organizzazione e di integrazione, fondate sulla condivisione consapevole anche di contenuti culturali, in quanto prodotti collettivamente e, quindi, creati e accettati da tutti gli interessati. Secondo Habermas, “il processo democratico garantisce legittimità già in virtù delle sue caratteristiche procedurali. Perciò esso può entrare in funzione quando occorre riempire i vuoti dell’integrazione sociale oppure, di fronte a una modificata composizione culturale della popolazione, produrre una cultura politica comune” (Habermas 1999a, 49). In società molto complesse è difficile individuare contenuti e valori comuni. Si pone quindi, la questione di che cosa oggi può essere comune ai diversi, che può mettere in grado i cittadini di creare legami e forme di integrazione. Rispetto alla cultura politica in senso ampio la “comune cultura politica” guarda al lato procedurale-minimo che può essere condiviso intersoggettivamente e intenzionalmente dagli individui, perché non ancorato ad una specifica cultura di base. Gli aspetti su cui riflettere sono molteplici e riguardano il grado di riflessività di tale cultura politica rispetto alle subculture che contribuiscono, attraverso l’incontro dialogico, a costruirla e articolarla a loro volta; il livello di astrattezza e autonomia normativa, tenendo conto che qualsiasi cultura politica è fortemente legata ad una storia e ad un territorio. Il rapporto, quindi, tra la cultura di base, la cultura politica la comune cultura politica chiama in causa il rapporto tra gli aspetti più sostanziali di una cultura politica (valori, simboli, rituali, appartenenza ad un territorio e ad una storia) e quelli più procedurali (procedure comunicative, competenze deliberative). Sicuramente porre alla base di una collettività un accordo sostanziale, fondando la condivisione su di un nucleo di valori forti e ben radicati, significherebbe rendere la condivisione stessa maggiormente stabile nella durata, ma se prendiamo sul serio il fatto del pluralismo un accordo su valori sembra oggi impossibile a causa di un deficit di capitale sociale, di una forte identità comune e di un’estesa fiducia reciproca. Attraverso la democratizzazione della cultura politica esistente è possibile mettere in gioco elementi per sviluppare un processo di costruzione della comune cultura politica? Un processo di democratizzazione della cultura politica crea quelle condizioni pratiche e quelle procedure per abilitare i cittadini a vivere appieno la cittadinanza democratica. Imparando a “praticare” la democrazia deliberativa, i cittadini arriveranno, a loro volta, a condividere una nuova cultura politica comune. Dobbiamo chiederci se sui temi che hanno rilevanza etica, civile e politica, sia possibile “abbozzare” un discorso comune senza restaurare in qualche modo una “metafisica”; sono problemi difficili che riguardano il complesso rapporto ed equilibrio tra religione e laicità, etica e morale. Quale filtro è necessario perché le subculture convergano in una cultura politica più astratta e universale? Quale principio regolamenta oggi il passaggio nell’agenda politica delle questioni etiche? Sono necessarie due direzioni di ricerca, parallele e intersecantesi: da una parte, abbiamo il concetto stesso di “cultura” e il bisogno di trasformarlo da contenitore di sedimentazioni di valori e norme date per scontate senza alcun processo riflessivo, ad insieme di elementi costruiti intenzionalmente. Dall’altra parte, abbiamo il concetto di “comune”, nel suo significato di procedure e competenze deliberative, che abituano il cittadino a pratiche di dialogo, di confronto, di argomentazione razionale di punti di vista molto differenti.
2. Gli individui possono potenzialmente sviluppare competenze e abilità per condividere una comune cultura politica?
Alla base di tale prospettiva vi è l’idea di individuo come capace di argomentare e discutere pubblicamente pretese di validità diverse, verificando di volta in volta la compatibilità di una certa concezione politica della giustizia (morale) con la propria concezione comprensiva ma ragionevole del bene (etica). Pur riferendosi alla tradizione illuministica, la ragione, come facoltà di ogni individuo, non è intesa come un sistema di universali, ma come un insieme di argomentazioni che divengono normative, non sulla base di una comunità di appartenenza, ma sulla base dell’agire orientato all’intesa e, quindi, basato sulla struttura della comunicazione linguistica. Alcune posizioni teoriche sostengono che se sono stabilite alcune condizioni possibilitanti (spazi pubblici di libera discussione, parità di accesso allo spazio pubblico, nessun limite alle questioni da argomentare), il contesto democratico orienta gli individui alla riflessione ed all’interazione in un senso che è più logico (Gutman, Thompson 1996), razionale (Benhabib 2005), auto-critico (Dryzek 2000) ed orientato verso il bene comune (Cohen 1997). Il presupposto è che, anche se gli individui non hanno sviluppato completamente le competenze necessarie di partenza, hanno comunque le abilità per partecipare al processo decisionale e sviluppare prontamente tali competenze: la questione non è tanto come la democrazia (ridefinita soprattutto in termini deliberativi e discorsivi) potrebbe far prendere le decisioni migliori ai partecipanti, ma, soprattutto, come la deliberazione potrebbe rendere i cittadini migliori. Gli individui coinvolti nel processo democratico sono in grado, nonostante le condizioni favorevoli, di sviluppare quelle competenze di argomentazione razionale in grado di far trovare soluzioni condivise? Nella maggior parte dei casi, i cittadini non hanno interesse alla partecipazione politica e, molto più spesso, non hanno né competenze né risorse economiche, sociali e culturali per parteciparvi. La disponibilità degli individui a dare priorità all’interesse pubblico, riconoscendosi come soggetti politici, è fondamentale per la costruzione costante della cultura politica, affinché sia espressione di atteggiamenti attivi e democratici. Oggi, invece, c’è una limitata ricettività dei cittadini per i temi dell’agenda politica e la difficoltà a mobilitare i potenziali di partecipazione alla vita pubblica (Privitera 1999). Questo rende più difficile lo sviluppo della democrazia in senso deliberativa e, di conseguenza, la costruzione di un nucleo di procedure e competenze comuni per la condivisione e costruzione di una comune cultura politica. Nella misura in cui gli individui difettano delle competenze necessarie e non conducono le loro discussioni nel modo voluto dalle teorie democratiche-deliberative, è possibile “intervenire” attraverso un’educazione che punti a sviluppare capabilities, ossia le competenze comunicative e cognitive di base degli individui?
3. Che ruolo e significato ha l’educazione e la formazione alla comune cultura politica?
La società diviene oggi una sorta di laboratorio di democrazia in cui prendere coscienza delle tendenze attuali e della necessità di ridefinire strumenti di lettura. Occorre stimolare quel processo di incontro e di volontà a raggiungere un’intesa e “innescare” un gioco di scambi tra chi percepisce i bisogni, li traduce e educa e chi, una volta educato, costruisce a sua volta una comune cultura politica Educare alla comune cultura politica significa creare quelle condizioni favorevoli affinché gli individui possano sperimentare gli esiti positivi possibili di un incontro con l’altro. Significa incrementare, sviluppare competenze di comunicazione, di interazione, di discussione. Sono competenze critiche, conoscitive, cognitive. Sono competenze di base, comuni che consentono una piena cittadinanza attiva. Il senso dell’educazione a tale cultura ha il significato di una formazione che motivi, attivi e tuteli. Al centro di questa idea vi è, dunque, una concezione della partecipazione e della deliberazione che si qualifica in primo luogo come apprendimento delle procedure e delle dinamiche del confronto politico-istituzionale. L’educazione ad una comune cultura politica rimane un obiettivo perseguibile in diversi ambiti della società: nella società civile; nella sfera delle istituzioni politiche democratiche; nella scuola. Ogni luogo è particolarmente qualificato a “preparare gli individui” a sviluppare una comune cultura politica. La società è collegata come un network in cui se un cambiamento, anche leggero, avviene in una sfera, questa modifica di riflesso anche le altre. La presenza di forti reticoli organizzativi può consentire una più elevata partecipazione, soprattutto ai gruppi più svantaggiati. Una rete di condivisione nasce quando più persone si attrezzano per rendere agevole l’interazione comunicativa e lo scambio di conoscenze tra i diversi nodi della rete. La rete è “un’istituzione” che si affianca al mercato come modo di coordinare le attività e, in particolare, di gestire le conoscenze; per le sue caratteristiche riesce a gestire scambi cognitivi più ricchi del mercato. Si tratta di “immettere dosi” di democrazia e di razionalità argomentativa nelle varie sfere in cui operiamo, ristabilendo le regole e la prassi di una ragione pubblica. Si tratta di “immettere dosi” di democrazia e di razionalità argomentativa nelle varie sfere in cui operiamo, ristabilendo le regole e la prassi di una ragione pubblica.
4. Comune cultura politica e cittadinanza
La cittadinanza, nella sua più comune accezione, è un insieme di diritti civili, politici e sociali di cui gode un individuo che appartiene ad una determinata comunità politica. La cittadinanza conferisce il diritto di partecipazione politica, il diritto di occupare determinate cariche, di assolvere determinate funzione, di deliberare e decidere riguardo a questioni definite. In questo senso l’educazione alla comune cultura politica diviene in senso più ampio un’educazione alla cittadinanza attiva.Il progetto di un’educazione alla comune cultura politica si inserisce in un più esteso progetto di educazione alla cittadinanza, in cui si amplia il concetto di educazione civica. Spostando il significato da “istruzione civica”, a quello di “educazione civica”, fino a “educazione alla cittadinanza”, o “alle cittadinanze”, si riflettono due principali cambiamenti: il primo è il passaggio da una concezione per la quale le conoscenze, in particolare la conoscenza delle istituzioni politiche (locali, regionali o nazionali), erano la priorità di una disciplina, ad una concezione che porta in primo piano “l’esperienza di ciascuno e la ricerca di pratiche adatte a sviluppare atteggiamenti e comportamenti rispettosi dei diritti dell’uomo e della cittadinanza democratica” (Audigier 2002, 159); il secondo cambiamento è rappresentato da una notevole estensione del suo ambito, dovuta in primo luogo ad una interpenetrazione tra la sfera etica e quella morale, e al fatto che l’educazione alla cittadinanza va ben al di là del quadro scolastico a cui era tradizionalmente limitata. Il cittadino, definito in rapporto alla sua collettività politica di appartenenza, lascia il posto al cittadino visto come una persona che vive in società con altre persone, in una molteplicità di situazioni e di contesti. Siamo così passati da una concezione di cittadinanza che poneva l’accento sui sentimenti di appartenenza e in cui l’educazione si faceva carico della trasmissione di questi sentimenti attraverso una forte enfasi sull’obbedienza alle regole collettive, ad una concezione più individualista e strumentale della cittadinanza, una cittadinanza che privilegia la persona e i suoi diritti e pone in secondo piano l’affermazione delle identità collettive parziali, in senso geografico e culturale, rappresentate dagli Stati (dibattito tra comunitaristi e liberali).
5. Che ruolo hanno i movimenti e i partiti nel processo di educazione alla cittadinanza? Quali forme di democrazia sono maggiormente compatibili con l’idea di una formazione alla cittadinanza attiva?
I partiti politici rappresentano ancora istituti importanti nella formazione dell’opinione e della volontà, ma la crescente separazione di eletti e elettori e la commercializzazione della competizione elettorale, vedono i politici assumere sempre più atteggiamenti strategici, al fine di mantenere il potere politico, restringendo lo spazio per una politica deliberativa. I partiti hanno perso gran parte della loro sostanza democratica e della loro funzione di articolare, mediare e incanalare la formazione politica dell’opinione e della volontà. Si tratta di depotenzializzare la politica tradizionale a favore di forme di politica orizzontale fondate sulla partecipazione, su pratiche diffuse, su strumenti e procedure che servano a rigenerare, continuamente, la capacità del cittadino di informarsi adeguatamente, di argomentare le proprie posizioni, di influenzare i propri amministratori, di difendere e promuovere i diritti civili e sociali (Boiler, Donovan 2002). La politica gestita democraticamente è ancora oggi l’unico mezzo per ottenere un’azione consapevole da parte dei cittadini; democratizzare ulteriormente il sistema politico consentirebbe di dare più spazio al potere comunicativo dei cittadini. La politica è un processo di continua traduzione tra problemi privati e questioni pubbliche: quando questa traduzione si blocca, tali problemi e questioni non possono essere soddisfatti e risolti. In questo senso, i movimenti sociali giocano un ruolo importante, in quanto attori principali della società civile capaci di far emergere i bisogni degli individui, di articolare le questioni; essi tuttavia, non devono mai totalmente opporsi in maniera violenta nei confronti delle istituzioni. La società civile deve divenire luogo di critica, di ridefinizione costante dei principi democratici; un laboratorio nel quale gli individui hanno la possibilità di apprendere le procedure democratiche per creare una rete di discorsi e trattative ed esercitarsi nelle disposizioni democratiche per la soluzione razionale di questioni pragmatiche, morali ed etiche - ossia di quei problemi che, quando si accavallano, possono creare disturbi all’integrazione funzionale, morale o etica di una società. La partecipazione di tutti i cittadini ad un processo deliberativo è la condizione fondamentale della legittimità di ogni democrazia; in tale partecipazione, ogni cittadino gode di un’uguale opportunità di far sentire la propria voce, confrontando i propri argomenti con quelli altrui e seguendo procedure, senza far valere in modo autoritario le proprie convinzioni. Tra le varie forme che la democrazia può sviluppare, quella deliberativo-discorsiva rappresenta sicuramente il modello più congruo allo sviluppo di una comune cultura politica. Lo scopo della democrazia deliberativa è, quindi, quello di mettere in grado i cittadini di discutere liberamente dei modelli di vita che preferiscono e di tradurli in realtà, in modo tale che individui diversi, dal punto di vista etnico, religioso o politico, possano vivere insieme e magari creare collettivamente una nuova cultura politica.
6. E’ possibile rigenerare la legittimità delle istituzioni?
Le istituzioni politiche e sociali e le democrazie attuali non hanno le risorse per far fronte ai pericoli del mondo globalizzato, che tendono a destrutturare gli schemi mentali e ad eliminare le convenzioni con le quali siamo abituati a convivere. Si continua a far riferimento a vecchie forme di comunicazione pubblica, ma i cittadini, che sperimentano quotidianamente i cambiamenti nella loro vita, richiedono nuove forme di interazione e comunicazione. Laddove queste esigenze non vengono soddisfatte emerge una crescente delusione nei confronti della democrazia, delle sue istituzioni e delle sue procedure: sotto l’impatto della globalizzazione si creano deficit democratici sempre più ampi. I problemi sono oggi percepiti come sfide nazionali e sovranazionali, ma lo Stato sembra non riuscire a far fronte a tali sfide; le democrazie vacillano di fronte alla frantumazione di domande e pretese pubblicamente esibite, spesso, in disprezzo di ogni spirito di tolleranza e di rispetto nei confronti delle regole fondamentali della comunicazione e della convivenza. La svolta postdemocratica accentua il problema del legame tra legittimità ed efficacia-efficienza. La fiducia dei cittadini nei decisori e la loro effettiva possibilità di contare nelle scelte si indebolisce senza che a ciò corrisponda un rafforzamento dell’efficienza. Secondo Beck (2001) e Giddens (2000), la crisi delle democrazie è una crisi di sovraccarico o di legittimazione: l’applicazione di tecnologie sempre più potenti, in un contesto sociale in cui l’individuo è sempre più autonomo e consapevole, ha determinato problemi ambientali e tecnologici e una relativa crisi istituzionale; l’applicazione, sempre più estesa, dei princìpi universalistici ha fatto emergere richieste sempre più ampie di tutela e difesa delle differenze culturali, etniche, religiose o di genere, le quali hanno determinato un’agenda politica troppo estesa e una crisi della sfera pubblica borghese: La riflessione necessaria è sulla possibilità di recuperare legittimità da parte delle istituzioni politiche. Tali riflessioni hanno in comune alcune ispirazioni di fondo, come un atteggiamento critico nei confronti dei tradizionali modelli di decisione tipici della democrazia rappresentativa (basate sul principio di maggioranza il quale tende a mettere in secondo piano il tema affrontato, in quanto privilegia l’immediatezza della decisione a danno della qualità della stessa) e la rivalutazione dei fruitori dei servizi pubblici (in quanto più vicini alle problematiche del territorio e dotati di conoscenze dirette della realtà locale). Il processo decisionale è determinato da un complesso reticolo di comunicazioni generato dall’incontro tra opinione pubblica, partecipazione, scelte elettorali, processi legislativi e amministrativi. La sfera delle istituzioni rappresentative non è il teatro esclusivo della disputa politica e della formazione dell’opinione e della volontà; la democrazia deliberativa è imperniata sui movimenti sociali, sulle associazioni civili, culturali, religiose, artistiche e politiche della sfera pubblica, la quale si compone delle conversazioni e delle dispute anonime e incrociate che derivano dalle attività dei vari gruppi. Tuttavia, sebbene norme e assetti istituzionali normativi possono essere considerati validi solo a condizione che tutti coloro che avanzano “pretese di validità” possano prendere parte al discorso pratico (attraverso cui le norme vengono adottate), società altamente differenziate non possono sostituire direttamente il ruolo degli attori sociali a quello dei decisori politici, in quanto nessuno dei primi possiede la capacità di rappresentare l’intera società in un situazione di profondo pluralismo morale, cognitivo e di forti disparità nella distribuzione delle risorse. Bisogna, insomma, rinunciare alla visione di una società totalmente in grado di “autoorganizzarsi’” e quindi in grado di aggirare le istituzioni politiche moderne e il sistema dei diritti che a esse fanno riferimento. Tuttavia, la legalità dell’amministrazione deve essere assicurata vincolando “l’esercizio del potere amministrativo ad un diritto democraticamente statuito in maniera tale che il potere amministrativo si rigeneri solo a patire dal potere comunicativo collettivamente prodotto dai cittadini” (Habermas 1996a, 206).
7. Religione e integrazione sociale e politica
Nelle società secolari come quella europea, abbiamo una comunicazione religiosa sempre maggiore. Da un lato si parla di società secolari ma, dall'altro, sempre più persone trattano argomenti religiosi. Durante la secolarizzazione, la religione non è sparita tout court, ma è semplicemente sparita dalla sfera pubblica. Il forte processo di secolarizzazione ha interessato unicamente l’Europa. La religione è stata privatizzata, relegata alla sfera privata, e questo è stato possibile perché fondamentalmente vi erano due istituzione religiose maggiori: la chiesa cattolica e quella protestante. In continenti come l’America. Ad esempio, la religione è rimasta pubblica grazie alla vasta scelta offerta (presbiteriani, battisti, cattolici etc.). In Europa una scelta limitata ha portato ad un unico bivio: religione privata o religione pubblica (Eder, 2002). Di conseguenza, si è rafforzata l'invisibilità della religione, che, tuttavia, oggi torna sulla scena pubblica. Questo fenomeno prende il nome di post-secolarismo. La religione resta una relazione di senso al di là della scienza e della prassi politica (Habermas). Lo sviluppo della società in senso postsecolare (Eder 2002)[1] apre al dialogo tra etica e morale, tra posizioni laiche e posizioni religiose. Questo ha importanti conseguenze sulla qualità dello spazio pubblico (Casanova 2000). Un’esclusione della religione dalle discussioni in seno alla società civile priverebbe il sistema democratico di risorse importanti per la fondazione del senso. Ragione e fede, ragione e religione dovrebbero piuttosto essere chiamate “alla reciproca chiarificazione” e al reciproco riconoscimento. Lo sforzo di convergenza, e addirittura di “traduzione” linguistica, cui il credente e il laico sono dunque reciprocamente chiamati, non appare come una sorta di gioco a somma zero tra il modello dell’usurpazione e quello della rimozione (Rosati 2002). Sul piano politico, si tratta di intendere la secolarizzazione in chiave di doppia traduzione: traduzione, nel lessico secolare, delle intuizioni provenienti dalla fede, “vale a dire, come valorizzazione e transvalutazione dei contenuti religiosi in valori e criteri informatori della Offentlichkeit: di una ‘sfera pubblica’ che si alimenta non solo di armonie ma soprattutto di ‘dissonanze’” (Marramao 2001, 23), e traduzione nei termini di “ritematizzazione” e “laicizzazione” della società che prende le distanze dalla religione senza chiudersi alla sua prospettiva. La società postsecolare deve attuare, nei confronti della religione, lo stesso lavoro che la religione, a suo tempo, ha compiuto sul mito. Nel caso della prima traduzione, “la coscienza religiosa deve, in primo luogo, elaborare l’incontro cognitivamente dissonante con altre confessioni e altre religioni. Deve, in secondo luogo, dare i conti con l’autorità delle scienze che detengono il monopolio sociale del sapere. Infine, deve affidarsi a quelle premesse dello stato di diritto che si fondano su una morale profana” (Habermas 2002, 102); nel caso della seconda traduzione, la società postsecolare sarà sensibile al tipo di articolazione dei linguaggi religiosi, e sarà così capace di adattarsi alla sopravvivenza di comunità religiose in un ambiente che continuamente si secolarizza. Si eviterà non solo l’esclusione della religione dalla sfera pubblica, ma anche la privazione per la società secolare di importanti risorse per la fondazione del senso. Tale processo di traduzione o ritematizzazione significa riflettere sulla propria cultura di base, individuando quegli elementi che possono continuare a far parte di una discussione ragionevole per la costruzione di una base comune. La società che riflette dialogicamente su se stessa incontra nel dialogo la sua storia passata; una storia che diventa il punto di partenza, la base di appoggio per fissare il senso di quello che si sta facendo e dei progetti elaborati per il futuro. Nelle società democratiche non è più chiesto di rinunciare alla propria particolarità e alle proprie radici storiche; anzi, queste diventano i materiali con cui intrecciare la trama del dialogo riflessivo tra i diversi e anche tra gli opposti. I discorsi di autochiarimento, che scaturiscono da sfere pubbliche dotate di “strutture comunicative non manipolate”, possono rendere possibile la realizzazione di pari diritti di coesistenza per tutti i differenti gruppi etnici e per le loro sfere culturali.
8. Comunicazione politica, comunicazione istituzionale e comunicazione pubblica
La crisi tra i cittadini e le istituzioni viene da un mancata o inefficiente comunicazione pubblica, ovvero dalla mancanza di interazioni fra cittadini o gruppi che sono diversi e interagiscono per definire un codice comune e per trovare intese o valori localmente forti. Spesso questo limite è dovuto alla non conoscenza dei reali interessi e bisogni dei cittadini. Questi sono il principale stakeholder verso il quale mirare le singole azioni delle istituzioni, monitorandole e valutandone l’efficacia e la ricaduta.La comunicazione pubblica e le decisioni sono relegati a piccoli ambiti del sociale e richiedono disponibilità, organizzazione, competenze e capacità di fornire contributi specifici su alcuni temi. I media di comunicazione diffondono in modo diseguale queste competenze e conoscenze, così le strutture della sfera pubblica rispecchiano l’inevitabile asimmetria dell’informazione disponibile, ossia le diseguali opportunità di influenzare l’agenda politica. Un’azione efficiente deve nascere dall’integrazione delle strutture istituzionali con il vissuto delle comunità locali; da un lavoro comune tra istituzioni e cittadini (riuniti inmovimenti). Le battaglie vanno condotte a livello nazionale e internazionale ma soprattutto locale (Quartieri, Municipi, Comuni), perché è a questo livello che i problemi si concretizzano.
9. Comune cultura politica e politiche di Welfare (rapporti interistituzionali)
Negli ultimi anni l'assetto istituzionale e organizzativo del welfare è stato al centro di un processo di grande rinnovamento. La globalizzazione e la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione impongono una profonda revisione del Welfare State, delle strategie di sicurezza sociale e di assistenza, spostando l’asse operativo da una politica di difesa di classe, di tipo fordista, a una politica di difesa e sviluppo delle libertà e dei servizi di cittadinanza.Occorre ripensare le tradizionali politiche di welfare per dare risposte efficaci a nuove domande e nuovi bisogni. Esiste la necessità di rivedere le forme e le modalità con cui il welfare deve portare avanti le funzioni di tutela e di promozione sociale, in una situazione dove sono cresciute, o più semplicemente si sono modificate, le esigenze, ma dove sono anche destinati a crescere fattori ed elementi di incertezza e di rischio. Occorre investire su una funzione di welfare di sostegno al cambiamento, come opportunità di crescita sia delle persone che delle comunità, con un profilo - nei suoi vari aspetti economici, sociali, ambientali, di crescita del capitale umano - non frammentato dello sviluppo.
10. Comune cultura politica ed Europa (cittadinanza europea)
La cittadinanza si può definire come il legame che esiste tra un individuo e la comunità politica costituita in senso politico, ovvero dotata di istituzioni politiche, della quale egli fa parte. Il principale problema legato alla cittadinanza è il forte legame che si viene ad instaurare tra il cittadino e il territorio o nazione, che come comunità politica si forma e che ha quindi determinati tratti comuni linguistici, culturali, etnici e religiosi. L’affermazione dello Stato moderno, infatti, lega il concetto di cittadinanza, ovvero il godere di diritti civili, sociali e politici, a quello di nazionalità. La nazione è stato un forte catalizzatore della cittadinanza democratica.
Nessun commento:
Posta un commento